Tratto dall’omonima opera letteraria di Daniel Wallace e focalizzato sul destino dell’uomo, il film di Tim Burton circoscrive la narrazione attorno all’intensità del rapporto padre/figlio, predisponendone – per quanto possibile – una razionalizzazione. Uscito il 27 Febbraio del 2004 in Italia, il lungometraggio affronta in modo leggero la trattazione di un rapporto basato sullo scontro tra realtà e finzione o – per dirla in atri termini – tra giovinezza ed età adulta.
Cresciuto attraverso i racconti di un padre cantastorie, William Bloom (Billy Crudup) avvertirà la necessità di conoscere veramente suo padre e rapportarsi con lui. Arrivato nella casa paterna insieme alla sposa Josephine (Marion Cotilard), il giovane Will intraprenderà un personale viaggio alla scoperta della figura paterna,tracciando una linea di confine tra verità e fantasia e dovendo metter a tacerei pregiudizi sulle mirabolanti storie raccontategli in età giovanile e fornendo il ritratto del raggiungimento della maturità. Intento a rendere meno acre e più accattivante la realtà dei fatti, Edward Bloom (Evan McGregor/AlbertFinney) intendeva, attraverso i racconti, supplire, presumibilmente, a qualche sua mancanza e stimolare il culto del fiabesco nel figlio, ormai prossimo a diventare anch’egli genitore e giunto all’apprezzamento delle intenzioni paterne. Sullo sfondo del lungometraggio non manca una riflessione sulla fatalità e sul “modo crudele del destino di chiudere il cerchio su un uomo” (cit.), circoscrivendo, in un certo senso, la natura stessa degli individui, per cui “a furia di raccontare le sue storie un uomo diventa quelle storie … esse continuano a vivere dopo di noi e in questo modo egli diventa immortale” (cit.).